Il bergamasco Lanfranco Fenaroli, (1942-2009) fu scultore, pittore e smaltatore di buone capacità realizzando smalti moderni di grandi dimensioni e volti tradizionali con forti espressioni.

Addio a Lanfranco Fenaroli il pittore e scultore tormentato

Articolo di Pier Giorgio Nosari dal quotidiano locale L'Eco di Bergamo del 10 maggio 2009, in occasione della morte dell'artista.

L'artista Fenaroli (Foto by gandolfi )

Ci sono le persone e ci sono i loro «personaggi», che non sempre coincidono. Ogni città ha i suoi: l'intrico che si forma tra l'uomo e il suo riflesso pubblico va indagato così com'è, se si vuole capire l'uno e l'altro, la persona e la comunità in cui ha vissuto. Il pittore e scultore Lanfranco Fenaroli, scomparso il 5 maggio mattina a 67 anni, dopo una malattia breve ma fulminante, era uno di questi uomini «doppi», costretti a vivere con il proprio riflesso. Lascia il rimpianto di chi ha conosciuto prima le sue opere, poi la sua fama «maledetta» e infine lui, inchiodato negli ultimi quindici anni su una sedia a rotelle, alla casa di riposo di via Gleno. Lanfranco Fenaroli era un artista di talento, ed era un uomo buono. Era generoso ma schivo, tormentato dal cocciuto rovello di cui sono capaci solo le persone buone, quando hanno talento: il rigore di chi vuole estrarre da sé il meglio; l'insoddisfazione di chi sente che manca sempre qualcosa per farsi capire; l'ingenuità di chi vive l'arte come espressione umana e speranza di una vera comunicazione, disarmato rispetto alla vita pratica e all'idea che l'arte stessa sia anche una merce.

Aveva compiuto studi classici, nel Seminario da cui poi era uscito, segno biografico di una spiritualità tanto profonda quanto tormentata. Si era diplomato all'Accademia Carrara, con Trento Longaretti, e specializzato poi a Trento nell'arte dei metalli. Un destino beffardo ha voluto che integrasse gli stereotipi dell'artista caduto: il disagio psichico; l'aneddotica di chi lo ricorda sul Sentierone, con le sue opere sotto braccio, pronto magari a barattarle per un bicchiere di vino o anche solo per un guizzo di comprensione per il proprio lavoro; l'incidente che lo colpì nel fisico; la lunga degenza nella casa di riposo di via Gleno.

Pare la parabola di una tipica «biografia d'artista», di quelle che non mancano di affascinare il pubblico. E invece era il dramma di un uomo che non è riuscito a esprimere pienamente se stesso. Se non a sprazzi, se non nei suoi lavori, persino negli ultimi anni. Lanfranco Fenaroli dipingeva, con un rigoroso senso del colore: al di qua dell'astrattismo, al di là del realismo. Dipingeva Madonne e Crocefissioni, proseguendo una mai risolta ricerca spirituale. Dipingeva volti di donna. E clown, espressione di una malinconica gioia di vivere. E nature morte. E profili di un Cristo dolente eppure dolce: l'intrico misterioso della vita degli uomini. In parallelo aveva coltivato - fino alla chiusura del suo studio, in via Sant'Antonino - l'arte dello smalto su rame, che tra gli anni Sessanta e Settanta della sua prima affermazione era una tecnica poco praticata, in cui l'arte si univa a una manualità da alto artigianato. Di lui resta un catalogo d'opere disordinato, mai censito. E resta il ricordo di chi ne ha conosciuta l'umanità, vedendola filtrare goccia a goccia tra una mezza parola e un mezzo sorriso, una tirata di sigaretta e un caffè. Magari per ritrarsene, perché l'umanità scorticata mette disagio, e talvolta addirittura paura.

Ceramica, 25x500 cm